
Geraci Francesco, Quando si dice la vita
Prodotto nr.: | AD855 |
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"Quando si dice la vita" è un’espressione gergale che tutti quanti adoperiamo a suggello di una storia dalla trama complessa o paradossale.Una storia che meriterebbe, senz’altro, di venire raccontata o trascritta in un romanzo. Non tutte le storie, però, possono avere la dignità letteraria d’un romanzo, a maggior ragione se vere, ma non altrettanto verosimili.
Il buon Luigi Pirandello, figlio legittimo e della Sicilia (terra abituata a calare il giunco all’invasore di turno) e di Agrigento (città che non ci pensa su due volte, per convenienza e sudditanza, a cambiare nome e pure casacca), a post fazione del "Il fu Mattia Pascal", riporta una storia vera, di cronaca nera, proveniente dall’America, ma assolutamente improponibile perché non giustificabile da parte dello scrittore: la verità (che andrebbe, comunque, sempre interpretata) può benissimo fare a meno d fornire giustificazioni di sorta, soggiunge amaramente: tertium non datur, aggiungerebbero gli scolastici.
Il fatto narrato, per trasformarsi in romanzo, abbisogna inoltre di uno che sappia metterlo bene per iscritto, con tutte le regole del caso, regole che vanno rispettate, anche se talvolta trasformate. Non basta uno spunto, per quanto interessante o intrigante, se non si ha la forza poi di portare a compimento il compito assegnato. Ci vuole arguzia, ironia, creatività, bagaglio culturale adeguato per poter affrontare di petto una storia e presentarla con onestà e con un pizzico di complicità al lettore, che si fa garante, con la sua lettura, della bontà del manufatto.
Anche il romanzo è opera di tecnica, di tekné, cioè di arte; arte intesa come creazione, ma, anche, come artificio.
"Quando si dice la vita", romanzo a metà strada tra autobiografia e invenzione, tra realtà e finzione, tra dramma e farsa, tra fedeltà alla memoria e tradimento è tutto questo e altro ancora.
Francesco Geraci ci ha abituato, nel tempo, alla sua affabulazione. Alla parlantina sciolta e brillante, incastonata con aneddoti di vita vissuta e di dotte citazioni letterarie e filosofiche, in una lingua a metà strada tra un italiano lavato in Arno (più precisamente il Po) e un Siciliano risciacquato nell’antico fiume Akragas (ieri colmo di mito e oggi d’immondizia): una koiné che ha trovato oggi in Andrea Camilleri il suo esempio più alto e famoso ma da sempre da Geraci adoperata con naturalezza di chi è cresciuto succhiando da entrambe le mammelle: quella istituzionale dello Stato postunitario e quello pregaribaldino dei Borboni, che poi tanto borboni non erano, alla faccia della storiografia ufficiale.
La storia è abbastanza semplice, in apparenza, come può esserla, sempre in apparenza, "Una storia semplice" di sciasciana memoria, ma con una differenza di non poco conto: per il Racalmutese si trattava del suo testamento letterario, per l’Aragonese di un romanzo d’esordio.
Il protagonista, Felice Conforto, un nome una missione, è il figlio di umili proletari dell’entroterra agrigentino, che, dopo enormi sacrifici, in un’Italia postbellica riesce a diventare medico e a compiere, ma solo apparentemente, il salto sociale.
Medico dei poveri prima e medico povero poi, per scelta ideologica, è costretto a vivere e operare in una società in cui il valore di una persona viene parametrato con il conto in banca, con le case e le ville abusive, con le imbarcazioni da diporto, ecc. Felice Conforto viene, di conseguenza, "scalcolato" dalla società e, quel che è più grave, soprattutto dalla sua famiglia e viene trattato quasi come un usurpatore del desco familiare.
Ad un certo punto ha il classico colpo di fortuna vince il primo premio di una lotteria nazionale, ma quando sta per godersi la pensione e i soldi (con il conseguente riscatto sociale) un’ambulanza, residuato di guerra, lo investe davanti al cancello dell’ospedale in cui lavora, ironia della sorte proprio nell’ultimo giorno di lavoro, prima dell’agognata pensione "quando si dice la vita". Appunto.
Una vicenda cosi potrebbe diventare un racconto, anche brillante, ma non reggerebbe probabilmente il respiro lungo e profondo di un romanzo. Geraci, a dispetto di tutto, e a dispetto del fatto che, fin dall’inizio, proclami ai quattro venti il canovaccio, ha la faccia tosta e la bravura di portare brillantemente a compimento la scommessa fatta con se stesso, forse perchè fin dall’inizio non prende sul serio nè se stesso come romanziere né l’impresa, a cui ha dedicato parte dell’intervallo tra l’agonia del vecchio millennio e il parto, alquanto travagliato, di quello successivo.
Dal punto di vista narratologico il libro si rifà, come molta letteratura contemporanea, al prototipo del romanzo moderno, "Promssi sposi" compreso: "Il don Chisciotte della Mancia", di cui si celebra proprio in questo periodo il quarto centenario.
Geraci immagina che gli pervenga casualmente una cassa di appunti autografi del medico appena deceduto e ne ricostruisce la vita e i più riposti segreti, scavando da buon figlio di minatore in questa pirrera di carta.
L’identificazione tra lo scrivente vivente e quello defunto si spinge fino al punto in cui freudianamente l’Autore passa dalla terza persona singolare alla prima, per poi recuperare un linguaggio più neutro e più consono al compito di estensore di storia altrui, facendo così della metaletteratura.
Anche il protagonista della vicenda umana, Felice Conforto, ha molte caratteristiche in comune con il protagonista della storia di Cervantes: passa la vita a combattere per ideali per gli altri ormai obsoleti; adotta un’etica desueta, lotta contro tanti nemici reali, ma dalla consistenza molliccia e sfuggente, propria dei mostri partoriti dalla visione del mondo stravolta di don Chisciotte; i libri, tanto amati da entrambi, vengono considerati e giustamente dai familiari come causa di travisamento dalla realtà e causa di malattia ma la figura che ne esce fuori, per nostra fortuna, non è mai caricaturale, perché viene vissuta con estrema partecipazione e simpatia (sun pasko), così come, d’altronde, succede per l’eroe senza macchia e paura dello scrittore spagnolo.
Il romanzo è suddiviso in tre parti: le prime due, collegate tra loro, assumono il carattere di un romanzo di formazione: la giovinezza spensierata in un liceo di una piccola città di provincia del profondo Sud negli anni agonici del fascismo, con gli scherzi iconoclastici e le prime letture (che gli aprono nuovi orizzonti e gli fanno conoscere mondi fino ad allora sconosciuti) gli anni duri dell’università in una città del Nord (che stenta a riprendersi dalla tragedia della seconda guerra mondiale), con un breve ma intenso e casto innamoramento giovanile, e una seconda parte, che inizia con il ritorno al piccolo paese natio con le miserie di una terra ancora feudale...
Antonio Patti